PREFAZIONE di Emanuele Schembari

Nella vena poetica di Salvatore Vicari sembra predominare un’ispirazione di tipo naturalistico. In quasi tutti i componimenti, infatti, la natura appare quale elemento di sostegno e, insieme, di confronto con i sentimenti dell’autore, presentandosi come uno specchio che dia riscontro a tutta la sua tematica.
Le descrizioni del paesaggio rurale e gli usi e i costumi che appartengono a un passato quasi remoto, trascendono la realtà immanente e trasportano autore e lettori verso qualcos’altro. In realtà la campagna ragusana è quella che il poeta collega alla propria infanzia
Poesia della memoria, quindi, quella di Salvatore Vicari, una memoria tutta particolare e circoscritta alla ruralità. Ma quel mondo contadino d’altri tempi, strettamente collegato a un passato storico, oggi non è più identificabile, anche se, per l’autore, è assolutamente attuale. Si tratta di un mondo direttamente collegato ad una struttura familiare, costituito da tre principali entità: il padre (che è anche il maestro, l’educatore, l’esempio), la madre (che è amore, compagnia e solidarietà) e la divinità (Cristo, la Madonna, lo Spirito Santo). E’ un mondo poetico, estremamente circoscritto e lineare, dove la famiglia viene inserita in un società primitiva e contadina.
Questa è la tematica costante di tutto il libro, dove non si va al di là del soggettivo, anche se non mancano osservazioni e metafore. La semplicità di itinerario poetico ricama una storia fatta di antiche quotidianità e di ordinarietà, a riprova dell’animo sensibile del poeta.
Si tratta di una poesia affabulante, capace di mutare in arcano, a volte, anche il gioco di un mondo arcaico e di estrema semplicità, che rappresenta il segno di una memoria prolungata. La nostalgia è implicita in quanto Vicari, che probabilmente prova ad avere rapporti con il lirismo e un certo tipo di musicalità, si limita a una descrizione, a volte elencativa, da cui si deduce la necessità di un ritorno, anche se solo col ricordo, ad un mondo elementare, in contrasto col mondo contemporaneo, non solamente elettronico, ma anche sostanzialmente alienante.

Vicari offre al lettore un linguaggio semplice, ma curato e intenso, in uno stile ispirato a una sostanziale semplicità espressiva. Poesia ricca di candore, in diretta dipendenza dalle radici, sia linguistiche che psicologiche, e che trasporta il lettore lungo un percorso ricco di autenticità.
Questa raccolta di versi può essere considerata un recupero del tempo perduto, col preciso obiettivo di poter focalizzare un passato ben determinato e ben datato: quello dell’infanzia dell’autore e dei suoi genitori, come erano, quando lui era adolescente. E la campagna, con il suo mondo e i suoi costumi dell’epoca, è il palcoscenico dove è stata recitata la commedia dell’infanzia. La natura descritta è la precisa proiezione di un bisogno e di un ricordo.
Il seminatore, i mietitori e i pastori non esistono più, così come sono descritti nelle poesie, come non esiste quel mondo rurale, ma tutto diventa parte del ricordo e metafora della vita.
E’ chiaro che l’autore considera se stesso, di volta in volta, seminatore, mietitore e pastore e, così, tutto riacquista un senso.
La tematica del libro si trova nei primi versi della poesia “Muddhichedhi r’amuri”: “Mathri, ca u piettu o natali mi rasti... e a cammisedha… / e-ttu, pathri, u sapuri rô sali e i scarpi... e u timuri… Ratimi… a-mmia siminaturi / semenza”.
E si fa esplicita la religiosità (anche questa, in fondo, di tipo rurale) nella lirica ”Ssi jòrna”: “Io, a Ttia nunn’è o-spissu ca Ti ciercu e... mi ni lori / ma u stissu / se-Tti viru Ti canùsciu / unu... umanu ri vicinu /... e-ttrinu / criru... ddhivinu ri luntanu, siminatùri ri spranzi“.
Conclude con l’elogio della terra di Sicilia…”rrustica rrera ri uommini …ri fìmmini bbedhi… ardhienti ri cori… gghiènti nusthrana… canta …pp’allicrizza o ppi rragghia / ’n coru ê so figghi e i niputi… stizzi ri sangu… ri chista terra… nosthra Sicilia r’amuri”.
Non mancano soluzioni tecniche felici e versi di una certa suggestività. Ma è il tono commosso e partecipativo il maggior pregio del libro, a dimostrazione di come questo mondo, che potrebbe apparire arcaico e superato a chi non lo ha vissuto, sia parte integrante dell’autore, che lo vive in assoluta simbiosi.

Emanuele Schembari


PRESENTAZIONE dell'autore.

L’uomo è incline a riesumare il proprio passato, gli anni giovanili, frugare nella memoria, rivivere episodi particolari. E a raccontarsi e a raccontare, ai figli, ai nipoti, agli amici: ”la guerra… l’America… quando io ero ragazzo…”, ancor di più da anziano, cresce il bisogno di trasmettere la propria esperienza…” stai attento… ai miei tempi…”
Meno memoria resta della prima fanciullezza, che, invero, è vissuta in parte in modo inconscio, spesso con il fastidio legato all’ansia di crescere, di indossare i pantaloni lunghi come i grandi. Ed in modo inconsapevole si registrano le sensazioni, i percorsi, le parole… Poi, da “grandi“, quando l’anzianità sbocca nella vecchiaia, è proprio vero che si ritorna fanciulli, e si ha bisogno di protezione e comprensione. Ed è allora che riemergono i ricordi, piuttosto larvati, magari deformati; immagini, flash istantanei, pensieri, parole da tempo dimenticate. Sono le monadi di Leibniz? il cogito di Cartesio? le idee dell’iperuranio di Platone? Forse un po’ di tutto: mistero e meraviglia della mente umana.
Nella stagione della maturità, sul “viale del tramonto”, la memoria è lo specchio sul quale si cerca l’immagine del fanciullo, come sul fondo di un pozzo, prima che il sasso caduto la cancelli, riportando alla realtà. E allora i passi sono più lenti e le orme più profonde, per il peso del corpo e degli anni. Il passato diventa attuale e il futuro si impone come proiezione dell’esperienza trascorsa. Le orme in ogni istante coincidono con i passi, sono congruenti alle precedenti e lo saranno con le successive.
Quando ci si accinge a scrivere, si cercano nella memoria le immagini e le parole. Ancor di più se alita l’ispirazione della poesia. Sono le assonanze, la ricerca della rima, della metafora, degli accostamenti alla realtà, di dire senza dire, per lasciare intendere a chi vorrà ascoltare, e inventare un messaggio. Allora la poesia vince la noia, la solitudine, allunga la vita.
La mia fanciullezza ha avuto un primordio agreste e affonda le radici nella “mia” terra, la generosa pianura del ragusano. Ora, con i ricordi, emergono gli odori, i sapori, i rumori della pioggia e del vento, quasi il fruscìo delle erbe che crescono… Ed è prepotente il bisogno di… dipingerli con i versi, con quelle parole dialettali infisse come chiodi nella mente. Ma la memoria è tuttavia filtrata, per formazione (o deformazione?) dalla lunga esperienza professionale, per cui tende ad avere un taglio scientifico razionale come si nota in buona parte da quel che dico e scrivo.
Da pensionato, dopo aver speso il mio tempo e le migliori energie prevalentemente nell’insegnamento, ho scoperto questo meraviglioso filone della poesia dialettale, con la quale mi diletto a rivisitare le nozioni apprese dagli studi liceali e universitari. Così ho pubblicato due libri.
Con il primo, “ U LUOCU, U TIEMPU “ (ed. LibroItaliano 1998) mi soffermo sulle due grandezze fondamentali Spazio e Tempo, assolute per Newton, relativistiche per Einstein, e, nella mia metafora poetica, lo Spazio diventa l’estensione piana della palma della mano divina e il Tempo l’estensione lineare del suo palmo, dal pollice, che spinge il sole, fino all’indice, che ne indica l’andamento uni-verso.
In questo modo si delinea la metafora della connessione intrinseca delle due grandezze, il cronotopo di Eistein. In pratica la durata di un giorno, dall’alba al tramonto, fino all’alba successiva, cioè la rotazione della terra, una grandezza spaziale, che viene assunta come unità di misura temporale.
Con il secondo, “U SULI QUATHRATU” (Libreria Paolino editrice 2002) ho rivisitato uno dei problemi più affascinanti della matematica: la quadratura del cerchio, cioè la costruzione geometrica di un quadrato equivalente ad un cerchio. Il grande Archimede ha trovato il rapporto tra la circonferenza e il suo diametro, il famoso p, che però è un numero trascendente e non è quindi costruibile un segmento che abbia tale misura con strumenti meccanici, quali riga e compasso. Pertanto il problema è rimasto irrisolto nei secoli. Nella mia metafora l’ho risolto poeticamente immaginando che un aquilone, sfuggito dalla mano di un ragazzo, spinto dal vento, vada ad incollarsi sul sole rendendolo quadrato.
Ora con il terzo, “I PASSI e LE ORME“ mi piace interpretare l’idea del “tutto scorre” (i passi) secondo il divenire di Eraclito, e del “tutto è” (le orme) quel che resta fermo, secondo Parmenide.
Potrebbero sembrare argomentazioni troppo pretenziose per un libro di poesia dialettale, ma sono concetti talmente radicati in me, che ora affiorano prepotentemente nella mente.
Memoria quindi, senza essere nostalgia, di quella stagione della vita in parte vissuta in tempo di guerra. Un fiume vorticoso di ricordi che vedo scorrere sotto gli occhi della fantasia, come spettatore curioso e affascinato.
I passi, il moto, l’avanzamento, sono il presente che si proietta verso il futuro. Le orme quello che resta, la traccia, il passato.
Il padre-guida e il figlio-discente, la mano e la manina, in cammino, insieme per un lungo tratto, in una sorta di simbiosi, intrecciano i loro passi.
Sul far della sera, su quella strada, un’ombra è più lunga, mentre la più corta rimane coperta. Le orme, le grandi e le piccole, sono parallele, pur convergenti, per quella reciproca interazione magnetica affettiva che è il “legame del sangue”. Ancor di più se la manina è quella del nipote, il figlio del figlio. Le orme saranno il preludio di nuovi passi verso l’eternazione della stirpe. Le foglie morte cadute e la polvere, le copriranno. Con il nuovo giorno solo un’ombra si staglierà sulla strada: senza il confronto, sembrerà grande, quella di un uomo maturo. La separazione è stata inevitabile: è legge di natura: c’è chi si ferma e chi continua l’opera, verso una nuova meta.
Il progresso, l’invenzione, la scoperta, anche la guerra e la rivoluzione, cambiano il mondo. Sarà la storia a raccontare le conseguenze alle generazioni future: “Ai posteri l’ardua sentenza“.
La lezione del padre maestro e del figlio alunno, nel giuoco infantile dei passi e delle orme, è la metafora dell’umanità, dello stesso progresso scientifico e culturale. Tutto viene da un passo, una leva, una ruota, da un cammino che procede e tutto avrà un seguito in un altro passo, un altro cammino.
L’universo, generato in un’esplosione cosmica, il big bang, è in espansione e, anche se impercettibilmente ai nostri sensi, fatalmente si avvia verso l’implosione. Forse per riprendere una nuova esplosione, un nuovo big bang. Una sorta di albe e tramonti cosmici.
Un qualunque meccanismo, in ogni azione, sviluppa calore. In opportune condizioni il calore può rigenerare movimento, cioè una forza lavorativa, per mezzo di una macchina: per esempio la locomotiva a vapore o più semplicemente il coperchio che si solleva sulla pentola quando l’acqua bolle. Per non dire delle centrali atomiche.
Un succedersi ciclico di trasformazioni termodinamiche: ma per il principio dell’Entropia l’energia meccanica tende ad evolvere in una massa di calore isotermico, non più trasformabile in energia meccanica, cioè in lavoro. Sarà la paralisi dell’universo, la sua morte cosmica.
La Scienza tende a scoprire i percorsi della natura, nei suoi grandi passi, ne enuncia le leggi con linguaggio matematico, quali la gravitazione universale, la struttura atomica, le onde elettromagnetiche, ecc. individuando un comportamento sorprendentemente razionale, pur trattandosi di materia inerte. Si ha la consapevolezza di sentire la immanenza di quella Mano che ha programmato e ordinato l’Universo.

I passi
Puitáta
Pethri…
Le orme
Poiesi
Pietre
Furmiculi
Scarpi ruossi
Unni vai, puisia
Bburrasca
Mirenna
Palumma
A sira ciovi
Formiche
Scarpe grosse
Dove vai, poesia
Burrasca
Merenda
Colomba
La sera piove
A mmia ru' ali
Ciamànniti, mathri
A me due ali
Chiamandoti, madre
Nira ri pethra
Mura a-ssiccu…
U muragghiu
Nidi di pietra
Muri a secco
Il muraglione
A sterna
U sirìlli ri petrha
U vignànu
A máccia ri nuci
Pathri
Manu
La cisterna
Il sedile di pietra
Il terrazzino
L’ albero di noce
Padre
Mani
Mathri
Pàmmini
A cianciana
Ssa porta
Tu, luci…
I jòrna
Armenu na vota
Muddhichedhi r'amuri
Madre
Foglie
Il sonaglio
Quella porta
Tu, luce…
I giorni
Almeno una volta
Briciole d'amore

Siminaturi
Cuccidha r'aternu
Sicilia r'amuri

Seminatore
Gocce di eterno
Sicilia d'amore


POSTFAZIONE di Andrea Guastella

LA NATURALEZZA DELLA POESIA


“Arma mia – ràpimi – e ddhimmillu… comu si fa a nun gn’ èssiri pueta?”
Come si fa a non essere poeta? Per l’anima bambina che si guarda intorno, fiuta l’orientamento, scruta, tutto è nuovo, tutto è occasione di meraviglia e pretesto per il canto. Da tale apertura di puro stupore scaturisce una lirica che imbocca senza esitazione e, apparentemente, senza sforzo i cammini della memoria. Non della solita memoria oleografica a cui ci ha assuefatto tanta poesia in dialetto. La memoria dell’ultimo libro di Salvatore Vicari è piuttosto una memoria nativa, scevra di sedimenti e di incrostazioni culturali.
È la tradizione di cui parlava Eliot , in cui si innesta in modo autonomo la visione del mondo dell’autore. E se, forse, il repertorio di pastori e muri a secco cui attinge può apparire attempato, non lo è certo lo spirito inquieto e interrogante che la informa, sicché essa invecchia come il vino buono, o come pitture che mai ci sogneremmo di chiamare vecchie, semmai antiche, perché continuano, nonostante gli anni, a testimoniare il loro splendore con l’evidenza della ragione e la forza di una passione che trabocca.
Sfilano così, sul palcoscenico noto della campagna siciliana, oggetti che nessuno, al di là del poeta, sa vedere – “ vavaluci / â-ggniddhuzzi ciunchi ca ciàmunu i so mathri “ – e che, una volta abbracciati e conosciuti nella comune essenza creaturale, ci fanno consapevoli dell’universale fragilità: “ Ma cci tuornu – ddhuocu - quann’è ll’ura / barbàniu anzièmi ê vavaluci / spièrsu ammienzu ê spini / […] / menthri a sira cala / e cciovi – làcrimi ri nùvuli – ciùsi ciùsi ( Pethri ).
Ora, è appunto col restituire l’uomo allo stato di natura che la poesia di Vicari esercita il sommo grado la sua funzione morale, che non è tanto quella di rispondere agli innumerevoli “perché“ suscitati dal reale, quanto quella di indicarci il nostro limite, affinché impariamo a trascenderlo o, almeno, ad accettarlo.
Questo l’insegnamento del padre del poeta, vero nume tutelare, cui sono dedicate pagine tra le più toccanti de “I PASSI e LE ORME”: la lirica Pathri, già apparsa ne “U SULI QUATHRATU” e ne “U LUOCU, U TIEMPU”, dove il figlio si ritrova ombra nella luce paterna, nonché il testo che dà nome alla raccolta. Qui il ritmo franto e alternato, come un flusso di coscienza, da continue pause e sospensioni, regala momenti di contemplazione assoluta, con la mente che pare distaccarsi dal corpo e
vivere eventi di altri tempi in altri luoghi: “ Si rici: fuorsi ‘n-numani si torna / àuthri terri? àuthri gghiènti? / i culura armenu putissi…stissa ùmm’ra e ll’arma / e a mamoria / ar’aspittari / tacita ‘ntisa – rrincunthràriti - pinziriùsu – ddhu filidhu ri fumu / ‘mmuzzicuni ri sìcaru ntô labbru / ùnicu sfizziu / e-ll’uocci, pathri, e i to manu ràpiri / ancora ppi n’ura simenza – nthra i jta luonchi - ruppa - rani ri rrusàriu “
Versi del genere, spontanei come per il contadino seminare, o per il venditore ambulante bandire ai quattro venti la sua merce, ma al tempo stesso calibratissimi, studiati alla scuola della grande letteratura novecentesca, sono quanto di meglio il dialetto abbia oggi da offrire e garantiscono a Vicari un posto di rilievo nella nostra poesia vernacolare.

Andrea Guastella


LA RECENSIONE DI LINA RICCOBENE

I "PASSI E LE ... ORME" di Salvatore Vicari hanno lasciato sempre segni indelebili sulle pagine bianche da riempire di versi e di autentica poesia in lingua siciliana ......

Il testo completo della recensione


La presentazione del libro al Liceo Classico Umberto I

Le foto della presentazione del libro al Liceo Classico Umberto I