Amo la pioggia.
M’inebria lo scroscio sul tetto e sulla vetrata. Il discorrere concitato col vento. Perverso.
Per me è la benedizione del Cielo sulla Terra. Una sorta di inseminazione sessuale che rigenera la vita, l’eternarsi della natura.
Mi affascina il misterioso germogliare di un piccolo seme, che da elemento primordiale è programmato allo sviluppo in un albero laureato.
Mi è cara l’immagine di un albero come simbolo della vita: un grosso albero, il carrubo, il noce, il mandorlo, il melo: i rami porgono fiori e frutti a piene mani; il brusio delle foglie sa di umano; l’anima è la Luce del Cielo; e i nidi veri simboli di procreazione.
Ho grande nostalgia dell’ombra di un “milicuccu “, mio compagno di giuochi da fanciullo.
Il mio albero affonda le radici nella generosa terra di BRUSCE’, nota contrada della pianura ragusana, proprio nel luogo dove oggi risuona il nome di “Monna Lisa“.
Poiché non è dato ricordare quando si viene alla luce, mi piace pensare che mia madre mi abbia trovato sotto un cavolo nell’orto di Bruscè. So che è una “cavolata”, ma è certo che quell’orto ha nutrito la mia prima fanciullezza, tra lo stupore delle albe e dei tramonti, e la caducità delle erbe, il prezzo della fatica, la semina e il raccolto… e le pietre sparse dovunque come innocenti testimoni del tempo; e le formiche, le api, gli uccelli, le foglie cadute.

E i muri a secco. E le trazzere, i polveroni nelle strade non ancora asfaltate. Il lume a petrolio e il braciere nelle fredde serate d’inverno.
E poi gli odori e i sapori e anche i racconti, i canti, i lamenti degli uomini e degli animali.
Ho iniziato la mia formazione alle elementari presso la vicina scuola rurale.
Ho poi scoperto che è stata proprio la mia maestra ad insistere con mio padre per farmi continuare gli studi. E così è stato: medie, liceo e università, fino alla laurea in matematica.
Certo mio padre ha colto volentieri, pur con grandi sacrifici, il suggerimento della cara maestra, sentendo probabilmente il bisogno di realizzare in me quello che era mancato a lui.
La mia maestra è ancora viva e vado spesso a trovarla.
A lei la mia gratitudine per avere acceso la fiammella che ha cambiato radicalmente la mia vita, altrimenti destinata alla continuità contadina.
Così ho fatto l’insegnante, per me il più bel mestiere in assoluto, per la grande gratificazione che ricevi dal contatto con i giovani. E l’insegnamento della matematica, in particolare, per l’inventiva e la creatività implicite nella perenne introspezione della mente, in quanto ricerca di razionalità e di sintesi, e non di meno dell’animo, in quanto ricerca di armonia, quasi una metafora di delicatezza dei sentimenti.
Ed ecco la GENESI della mia poesia, misteriosa scaturigine sia della mente che dell’animo.
Per me, apparentemente così diverse, matematica e poesia hanno le stesse radici del mio albero della vita, e traggono linfa vitale dalla terra-memoria fino alla chioma, dove fioriscono immagini-metafore, e al cuore, dove giungono le carezze-sonorità che stimolano all’orecchio la cadenza-metrica e l’ardito ritorno al capoverso senza bisogno né della punteggiatura, né della rima, spesso faticosi limiti alla spontaneità. Piuttosto cerco quell’assonanza, magari interna tra un verso e l’altro, che rende più gradevole la lettura.
Tutto questo lavorio interiore è diventato più evidente durante la terza stagione della mia vita, e mi ha portato ad una maturazione del tutto personale e originale.
Come è successo non saprei dirlo.
Meglio potrei dire quando: il primo approccio sostanziale è stato in occasione della cerimonia di commiato a scuola, il giorno del mio pensionamento. Infatti dovendo preparare il mio intervento finale, invece dei classici e formali ringraziamenti, durante la notte precedente la cerimonia, ho pensato e trascritto una sorta di filastrocca in dialetto, estrema sintesi scherzosa e amara della mia vita, dal titolo I FORMICAI, che voglio qui appresso allegare.
Dopo l’inatteso successo tra i colleghi, uscendo dalla scuola avrò certamente battuto la fronte in qualche spigolo, perché da quel momento mi è spuntato il bernoccolo della poesia dialettale, che mi ha procurato tanti riconoscimenti un po’ in tutta Italia.
E non è ancora finita né con la matematica né con la poesia: in un qualunque momento della giornata mi viene del tutto naturale passare dall’invenzione di una funzione trascendente-logaritmica-trigonometrica, alla ispirazione di versi nei quali scopro percorsi di formiche e roteare di mondi. E con la stessa, identica, passione. E, inevitabilmente, spesso vi prendono forma momenti del passato e dei vissuti con mio padre e mia madre dei quali, e con struggente nostalgia, riesumo i sacrifici e le fatiche.